lunedì 17 agosto 2009

Quella panchina non lasciamola vuota




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La panchina ballerina


Lettera a tutti quelli che vogliono bene al nostro paese

Sono passati ormai tanti anni ma è ancora perfettamente lucido in me il ricordo di quella panchina a Campodipietra.
Sto parlando di quella panchina ballerina che seguiva le fasi del giorno rincorrendo, su via Montini, l’ombra più fresca. Era stata costruita alla buona con quattro assi in croce che il sole e la pioggia avevano, negli anni, irrimediabilmente segnato ma era stata pensata con amore. Offriva ospitalità a chiunque avesse voglia e tempo per far due chiacchiere. Era il salotto da strada che regalava amicizia e calore facendo ping-pong fra l’area a fianco del distributore di benzina ed il marciapiedi al di là della strada.
Ogni giorno, specialmente durante la bella stagione, la panchina era meta obbligata per ascoltare le ultime news dal mondo e i relativi commenti degli ospiti. Attenzione però, quel salotto aveva le sue regole che non erano certo scritte ma sicuramente erano conosciute e chiare a tutti: il posto a sedere, prima di tutto, era riservato a quegli astanti che riscuotevano considerazione vuoi per livello culturale riconosciuto che per età. Erano autorizzati a parlare solo alcuni senatori a vita di Campodipietra gli altri potevano solo ascoltare ed annuire senza assolutamente entrare nel merito. Per chi ha letto o visto al cinema “ La Napoli di Bellavista” ne può immaginare meglio il contesto. A volte in quel salotto la conversazione durava ore facendo proseliti fra i passanti che, semmai presi dalla foga del discorrere, dimenticavano le commissioni da portare a termine, pur di ascoltare la fine della diatriba del giorno e semmai godere dell’occasione di schierarsi con la fazione preferita.
Era d’obbligo coinvolgere nel discorso, soprattutto se imperniato su temi politici, l’indimenticato Pasquale Carlozzi, il tubista. Lo facevano apposta ne sono certo: sapevano benissimo tutti che si sarebbe fatto prendere fin troppo facilmente, fino a dimenticare quel malcapitato cliente che lo avrebbe atteso invano, almeno per quel giorno. Tutti zittivano se a parlare era Filippo Carlone il medico, che tornava a Campodipietra da Bari ogni estate, puntuale come la festa di San Michele oppure il fratello Alfredo, professore liceale di chimica a Campobasso, Matteo, patito di funghi e Angelo terzo dei Carlone che guadagnava consensi per le sue notevoli capacità: non c’era nulla che non sapesse riparare non c’era mai un problema senza una soluzione spesso anche rapida e brillante. Non a caso il loro genitore nonché mio nonno, Nicola Maria Carlone, veniva soprannominato Marconi. Spesso faceva una puntata alla panchina Nicola Spina, allungando due passi dal suo punto di osservazione. Per me lui è sempre stato e sempre sarà il "gigante buono" con i suoi profondi occhi azzurri. Altro assiduo frequentatore estivo era Liborio che rientrava puntualmente ogni anno, per non parlare poi di Angelo Cardillo prima cacciatore come gli altri poi frequentatore giornaliero delle sponde del lago di Occhito alla ricerca di carpe e cavedani con qualsiasi condizione meteorologica. Solo un giorno, ricordo, lo colsi in fallo o almeno così pensavo trovandolo dinanzi casa in pieno orario di pesca. Fui subito redarguito perché Nonno Angelo subito replicò con voce autoritaria: oggi è San Michele e in onore del Santo faccio astinenza!
Così tutti i giorni, mentre Francesco Paventi, il proprietario e gestore della pompa di benzina, con l’orecchio sempre attento a quel fiume di parole continuava a rifornire di super o normale i veicoli. Francisch rappresentava di per sé un’icona di quella Campodipietra: il ricordo della sua voce roboante, di quella perenne abbronzatura color cioccolato messa in risalto con fierezza dalla canotta di lana grezza ma, soprattutto la sua affabilità e dolcezza, quel garbo inconfondibile mi riportano a un paese diverso a un paese che sicuramente non c’è più! Come si può dimenticare quando all’ora della canicola arrivava da Campobasso l’autobotte per il rifornimento e bisognava controllarne il carico: era lui Francisch, non più ragazzino all’anagrafe ma con lo spirito di un ventenne, a salire per primo sull’ autoarticolato e fra tubi e bocchettoni, stare attento che tutto procedesse per il meglio. Che dire del pulmino Fiat di colore grigio dove Paventi, parcheggiandolo all’ombra dinanzi casa, preferiva trascorrere le ore più calde dei pomeriggi estivi, disturbato solo dall’abbaiare stridulo del fido Tito, meticcio di colore tabacco dalle piccole dimensioni ma tutto pepe che, forse per darsi un tono importante, spesso usava camminava a tre zampe. Un brutto giorno quella voce inconfondibile, quel cane e quel pulmino scomparvero dalla scena, lasciando un vuoto che ancora oggi è incolmabile. Il tempo passa e molte cose cambiano e poi irrimediabilmente come è giusto che sia finiscono per lasciare il posto al nuovo che avanza. A quella panchina non siede più nessuno, forse non c’è più come del resto molti di coloro che ospitava, per fortuna non tutti! Gli amici rimasti, da anni ormai si sono trasferiti su una panchina più comoda che non ha bisogno di rincorrere l’ombra, essa è ancorata sotto la chioma del secolare leccio di via Fontana. Le regole sono sempre le stesse ed anche i discorsi. I giovani però non si fermano più ad ascoltare, hanno fretta, non c’è tempo per sentire quei discorsi che spesso si interrompono perché ormai la memoria balbetta.
Quegli amici della panchina che mia moglie amava chiamare “corte celeste” non fanno più opinione, ma credete che a loro importi? Sono e saranno pronti a rispondere con fierezza a qualsiasi domanda come sempre, forse meno lucidi ma con più slancio e disponibilità, sono loro i depositari della saggezza, della nostra storia delle nostre tradizioni.
Vi prego: quella panchina non lasciamola vuota!

Marco Carlone



La panchina del leccio